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Federico Il Grande, il re filosofo che accese il secolo dei lumi

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AGI – “Quando mai un diadema potrà di nuovo ornare il capo di un simile re?”: la domanda retorica su Federico Il Grande contenuta nell’epitaffio dedicatogli suo acerrimo nemico, il cancelliere Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg, la dice lunga sulla grandezza del ‘re filosofo’.

Ora è uscito il primo volume di una monumentale tetralogia che il giornalista e saggista abruzzese Claudi Guidi, residente da molti anni in Germania, dedica al sovrano di Prussia la cui figura si staglia potente sul secolo dei lumi. 

Il volume di 500 pagine, uscito venerdì per Il Nuovo Melangolo, è il primo di quattro che ripercorreranno la vita di Federico, e ne ripercorre la giovinezza, l’ascesa al trono nel 1740 e la conquista della Slesia alla fine dello stesso anno. Emerge un grande affresco che delinea i tratti umani, poetici, filosofici, militari e politici del più grande sovrano del suo secolo che abolì la tortura e la pena di morte.

Nato nel 1712, Federico vive un’adolescenza terrificante dominata da un padre despota, che cerca di soffocare la sua naturale vocazione da poeta e musicista, cosa che non gli impedirà di diventare uno dei massimi condottieri della storia, anche perché in battaglia sta sempre in prima fila.

Le pallottole nemiche gli ammazzeranno infatti cinque cavalli sui quali è seduto e due di esse lo centrano senza ferirlo, la prima intercettata dalla sua tabacchiera d’argento, la seconda che gli trapassa l’uniforme su un fianco senza scalfirlo. Incapace di rinunciare alle composizioni in versi, lascerà un’opera poetica in lingua francese più imponente di quella di Molière, ma anche 126 sonate per flauto, strumento che padroneggia da grande virtuoso. 

Tre giorni dopo essere salito al trono abolisce la pena di morte e la tortura, poi mette mano a una radicale riforma della giustizia, che riduce a un massimo di un anno la tenuta e la conclusione dei processi, fino ad allora protratti per lunghi anni a tutto vantaggio di giudici e avvocati famelici, che spolpano senza ritegno i disgraziati che capitano nelle loro grinfie. Fa anche spedire in galera un paio di giudici, perché “un giudice disonesto è peggio di un bandito di strada” e abolisce infine il latinorum e le fumosità del linguaggio giuridico, affinché ogni essere umano sia in grado di capire di cosa si parla e cosa si decide nelle aule dei tribunali.

Re senza corte e privo di qualunque pompa, si definisce con orgoglio il primo servitore dello Stato, percorre ogni estate su un malandato calesse vecchio di trent’anni le sue province, per ascoltare la voce dei suoi sudditi, verificare de visu la gestione dell’amministrazione, la corretta esecuzione delle riforme adottate, il rapido progredire dei lavori pubblici e fare brutali lavate di capo a chi non adempie in maniera rigorosa ai propri doveri, con la minaccia che in caso di recidiva finisce in galera. 

Assolutismo illuminato significa per il re di Prussia evitare di consegnarsi nelle mani di ministri ambiziosi, intriganti e litigiosi, per questo in quarantasei anni di regno non convocherà mai un consiglio dei ministri, che si limiterà a ricevere singolarmente una volta all’anno. Per il resto pretende dettagliati e puntuali rapporti sul lavoro svolto, che rimanda indietro con secche note a margine di approvazione oppure di biasimo, con commenti da far rizzare i capelli in testa del tipo questo è pazzo!, che scemenza!, chi ha scritto questa roba è un somaro!, parole vuote!, bolle d’aria!, non ci sono soldi!, imbrogli di giuristi.

Questo è tuttavia solo un assaggio, poiché le rimostranze diventano ancora più minacciose, quando scrive a un poco solerte funzionario che questo è un primo avvertimento, fate bene attenzione a non farvi capitare qualcosa di brutto. In margine a un altro rapporto scrive che si tratta solo di uno dei soliti imbrogli dei ministri per sistemare qualche loro protetto, su un altro resoconto sbotta che in vita mia non ho mai letto tante cretinate.

Comprensibile il commento di un commerciante londinese stabilitosi in Prussia, il quale manifesta in maniera calzante in una lettera inviata in patria l’atmosfera che regna a Berlino, quando afferma che “preferirei essere una scimmia nella giungla del Borneo, piuttosto che fare il ministro in Prussia”. Nel suo impeto riformatore Federico abolisce la servitù della gleba nelle terre demaniali e distribuisce la terra ai contadini, il primo a farlo, secondo Karl Marx. Corrisponde per una vita con d’Alembert e Voltaire, che lo ammirano e sognano come il resto d’Europa l’avvento ovunque di un sovrano assoluto altrettanto illuminato.

Nel momento in cui l’Europa intera mette al bando i gesuiti, li accoglie nel suo regno, perché sono i migliori insegnanti in circolazione, dei quali ha bisogno per diffondere l’istruzione ovunque. Nel vedere a Berlino una folla accalcata davanti a un muro, che ha affissa una sua feroce caricatura, si avvicina e commenta: “Mettetela più in basso, così possono vederla tutti senza stirarsi il collo”. Uno dei suoi limiti è la misoginia, infatti mai una donna metterà piede nella sua reggia di Sanssouci, compresa la moglie. Sul suo assolutismo illuminato Voltaire dirà che è “meglio obbedire ad un bel leone che a duecento ratti”.

Quando il 17 agosto 1786 Federico il Grande chiude per sempre gli occhi, lascia nelle mani del nipote Federico Guglielmo II un regno che non ha più niente in comune con quello da lui ereditato nel 1740. L’originaria scatola di sabbia del Brandeburgo si è trasformata nello stato militarmente più potente e temuto d’Europa con un esercito di 200.000 soldati, un territorio finalmente compatto rispetto a quello iniziale e indifendibile fatto a pelle di leopardo, nel quale ogni città si trovava a un giorno di marcia da una frontiera nemica.

Un Paese che per superficie si collocava al 17mo posto in Europa, tra il regno di Sicilia e quello della repubblica di Venezia, e che per popolazione contava poco più di due milioni di abitanti, un decimo di quelli della Francia, è diventato una potenza continentale con quasi sei milioni di sudditi e con le casse dello Stato rigurgitanti di denaro. Le riserve lasciate ammontano infatti a 50 milioni di talleri, una somma colossale, se si considera che l’Austria rimane sempre indebitata fino al collo e la Francia oscilla perennemente sull’orlo della bancarotta.

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