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Il fotografo ragazzino e lo scugnizzo di Villa Fiorito

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AGi – Dietro la crosta dei murales, sotto l’azzurro delle celebrazioni, ci sono altre tracce che Diego Armando Maradona ha lasciato a Napoli e spiegano perché il suo mito non sia cresciuto solo sulla memoria dei successi o grazie alla speciale condizione del campione más grande.

Storie che sbocciarono fuori dal campo, a margine degli albi ufficiali, in sospesa dimensione tra pubblico e privato. Qualcuna la conosciamo, altre non le intercetteremo più, molte hanno a che fare con quelle “apparizioni” che El Pibe disseminò tra la notte e le feste, tra gli allenamenti e le strade minori dove veniva intravisto in macchina o a piedi o forse nemmeno era lui.

Memorie collettive e personali come quelle descritte da Paolo Sorrentino al cinema e celebrate fuori del cinema negli scatti fotografici di Sergio Siano: miriadi di Diego in tutte le pose e gli sguardi, catturati quando vestiva la maglia del Napoli ma con qualcosa in più della cronaca professionale.

Qualcosa che è l’anima di Siano, all’epoca un ragazzino, figlio e fratello d’arte, il più piccolo di casa ma con la voglia di diventare grande subito per cui preferisce salutare la scuola e imbracciare la macchina fotografica fermando con l’obiettivo glorie e orrori di una città uscita da poco dal terremoto, dove le guerre di camorra lasciano sui marciapiedi, a disposizione dei fotoreporter, un eccesso di orrori e dove ogni giorno, uscendo dalla redazione, non sai cosa scatterai mai sai che scatterai qualcosa che lo merita.

Lo sbarco in Cina

Si chiama ‘Il mio Maradona’ la mostra che Siano porta in Cina, nel Padiglione Italia all’Hangzhou Cultural and Creative Industry Expo dal 23 al 27 novembre, affluenza prevista trecentomila visitatori e la partecipazione di sessanta Paesi. Il fotografo napoletano espone trenta scatti più la maglietta col numero 10 e una canottiera che Diego gli donò, con l’auspicio di ripetere il successo che la mostra ha già riscosso a Bruxelles, Londra e Hannover.

“L’ho intitolata ‘Il mio Maradona’ perché il Diego delle mie fotografie non è condizionato da chi ne ha parlato e ne ha scritto allora e dopo”, spiega Siano. Nell’85, quando cominciai questo lavoro, lasciai la scuola e mi dissi che avrei scelto da me i miei professori: il più importante fu Maradona”. Sergio lo fotografava nelle partite e al Centro Paradiso di Soccavo, dove s’allenava la squadra del Napoli (e che è stato appena acquistato da Fabio Cannavaro).

Cosa gli insegnò El Pibe? “La materia più importante: l’umanità. Chi lo ricorda per gli aspetti problematici della sua vita dimentica che andava una volta alla settimana all’orfanotrofio di Pompei, dimentica il bene che ha fatto. Assistere ai suoi allenamenti fu un privilegio, perché spesso venivano persone che non potevano permettersi il biglietto della partita e Diego, che lo sapeva, si esibiva per loro in numeri speciali, neanche visti allo stadio, e con loro parlava tantissimo”, prosegue Siano.

“Quando finivano gli allenamenti e tutti erano andati via, indugiava sul campo con il pallone e mi lasciava rimanere lì perché non lo disturbavo, non lo avevo mai rincorso con la Nikon nella sua vita privata. Ero solo un ragazzo ma capivo che era un uomo tormentato e quello era il suo momento sacro, l’unico in cui poteva starsene da solo e sentirsi libero. Fuori di lì l’assedio dei tifosi, di giornalisti e fotografi sarebbe stato implacabile. Non poteva nemmeno affacciarsi alla finestra di casa. Come lui, anch’io avevo bisogno di quei momenti di pace, che compensavano le mie giornate di fotoreporter di ‘nera’ e la mia vita ai Quartieri Spagnoli, la vita di un ragazzo testimone di tante vicende cattive. Diego mi salutava con affetto e in quel momento c’erano, in un posto che veramente mi sembrava Paradiso, solo un ex scugnizzo di Villa Fiorito e un ex scugnizzo napoletano che si parlavano in silenzio”.

Siano ancora si chiede, e se lo chiedono in molti, perché quel campione avesse scelto un giorno del 1984 di andare in una squadra che non prometteva i trionfi cui avrebbe potuto aspirare altrove. “Perciò respingo tutti i paragoni con Messi, che ha sempre giocato tra grandi calciatori e in grandi club. La risposta che mi sono dato è che Maradona dovesse assolvere a una missione di cui forse lui stesso non si rendeva conto: insegnarci a vincere. Farci credere che si può vincere. Far vincere chi non ha mai vinto. Perciò, quando al termine di quei sette anni se ne andò, né lui né il Napoli vinsero più nulla. La missione s’era compiuta. E la mia missione è raccontarla”.

Cominciando da uno scatto famosissimo però non suo: quello del Pibe che si presenta ai tifosi salendo la scala del San Paolo, il 5 luglio dell’84. Foto firmata Mario Siano, papà di Sergio. L’omaggio è anche per lui.               

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L’acqua restituisce la statua di Apollo. Scoperta eccezionale a San Casciano

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AGI – Una statua in marmo, quasi integralmente ricomponibile, di un Apollo con la lucertola. E ancora, un altare in travertino con iscrizione bilingue etrusco-latino e la scoperta di una struttura di età etrusca sotto la grande vasca riconducibile all’epoca romana. Dalla campagna di scavi 2023 di San Casciano dei Bagni, in Val di Pesa (Firenze), che si è conclusa a ottobre dopo tre anni, emergono nuove e meravigliose scoperte. 

L’altare è uno dei rarissimi esempi di iscrizione bilingui mai rinvenute. In Etruria ve ne sono al massimo una trentina, spiegano gli archeologi, ma “per la gran parte si tratta di iscrizioni funerarie mentre, in questo caso, il donario monumentale ha un carattere pubblico e cita la fonte sacra e calda, in etrusco e in latino”. Una testimonianza straordinaria che confermerebbe la convivenza di genti diverse nei pressi del santuario ancora agli inizi del I secolo d.C. e con l’esigenza che la divinità fosse da tutti compresa”.

La prosecuzione degli scavi non ha smesso di restituire tesori: l’ultimo, riemerso dal fango e dall’acqua calda, è un giovane Apollo intento a cacciare una lucertola.

Si tratta di una statua in marmo di cui sono stati ritrovati quasi tutti i pezzi: era stata spezzata.al momento della chiusura del santuario, agli inizi del V secolo d.C. cioè quando – spiegano gli esperti – tutto il luogo di culto fu chiuso ritualmente, probabilmente per effetto della cristianizzazione diffusa del territorio.

Mentre il deposito votivo fu protetto con la deposizione delle grandi colonne di travertino che ornavano il portico del tempio, “la statua di culto di Apollo fu spezzata, frammentata e i pezzi quasi sparpagliati e poi coperti dalle massicciate di abbandono del sito”.

In parallelo con quanto sappiamo e osserviamo oggi, è stato evidenziato, “la contestazione della statua coincide con un momento di profonda trasformazione e di grandi interrogativi politici e sociali”.

Gli scavi di San Casciano non smettono quindi di stupire. Oggi si estendono per oltre 400 metri raggiungendo profondità che, in alcuni punti, tocca i quattro metri. Il nome dell’archeologo ed etruscologo Jacopo Tabolli, che coordina i team di ricerca italiani e internazionali impegnati sul campo, era già balzato agli onori della cronaca nei mesi scorsi dopo il ritrovamento, altrettanto eccezionale, di 24 statue di bronzo e altri reperti di inestimabile valore, risalenti a un’epoca nella fase di passaggio in Etruria, tra la dominazione etrusca e quella romana.

Anche in questo caso si trattava di reperti, ritrovati sul fondo della vasca grande dell’antico bagno, che recano iscrizioni in etrusco e in latino e per tanto sono stati salutati come tra i ritrovamenti più significativi dell’ultimo decennio.  

Le ultimissime scoperte saranno presentate il 23 ottobre all’assemblea pubblica della comunità di San Casciano dei Bagni alle 18 al Casino delle Rose a Fonteverde.

“Ogni campagna di scavo ci racconta un pezzo di storia nuova ed entusiasmante che come sempre vogliamo raccontare alla comunità proseguendo il processo di archeologia civica che abbiamo intrapreso quattro anni fa” ha dichiarato il sindaco di San Casciano Agnese Carletti sottolineando il valore di un progetto che, “passo dopo passo, prosegue e per la cui realizzazione, sempre di più, è essenziale il sostegno del Ministero della Cultura”.

 

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Esce “Maria Callas” il libro di Giandonato Crico

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AGI –  A 100 anni dalla nascita di Maria Callas, esce per Gremese Editore un saggio che, intitolato proprio con il nome e cognome d’arte della celebre cantante lirica, ne ripercorre la vita e la carriera: un’artista dal talento ineguagliabile che milioni di appassionati continuano ad amare senza riserve. Poche donne, nel corso del XX secolo, hanno infatti saputo, come lei, suscitare tanto interesse e clamore: Maria Callas con il suo volto, la sua voce, la sua personalità è divenuta una leggenda internazionale, oltre a rappresentare una vera e propria icona del nostro tempo.

Il libro “Maria Callas” di  Giandonato Crico ripercorre la sua storia, dagli inizi alla scomparsa, passando per momenti artistici intensi – quali, ad esempio, la collaborazione con Luchino Visconti e l’avventura cinematografica con Pier Paolo Pasolini –  è ritratta perspicacemente dall’autore Giandonato Crico che la condisce con episodi poco conosciuti della sua biografia umana e una serie di aneddoti curiosi dai quali si evincono le circostanze e le scelte compiute da una donna dalla vita esterna ed interiore, oltre che caratteriale, decisamente non facile.

Tra i complessi nel privato e la repentina proiezione nel jet set internazionale, la Callas fu perenne obiettivo dei giornali da rotocalco per amori, amicizie, scandali e collere da tregenda; in questo volume, oltre a tracciare le principali tappe della sua “consumazione” umana ed artistica, si analizzano tecnicamente quei tratti distintivi del suo timbro canoro, riconoscibile al primo impatto.

Ad impreziosire il libro sono numerose fotografie, alcune delle quali qui pubblicate per la prima volta insieme ad un racconto parallelo composto di citazioni e frasi proferite della stessa Callas o da altri personaggi, che ne commentano la persona e l’operato: da Riccardo Muti a Luciano Pavarotti, da Yves Saint-Laurent a Placido Domingo, da Luchino Visconti ad Alberto Arbasino. Il volume vede l’introduzione del giornalista Enrico Stinchelli con note ed approfondimenti critici lungo tutta la narrazione.

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Al MAXXI l’arte di pace dal kibbutz Be’eri distrutto da Hamas

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AGI – L’Arte scende in campo per documentare da un’altra prospettiva il conflitto a Gaza – quella di chi vive in un kibbutz al confine Sud di Israele – e per lanciare un messaggio di speranza e pace nonostante il pesante bilancio umano, la distruzione su vasta scala, con un pensiero rivolto agli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.  È questo il messaggio che arriva dal MAXXI, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, che nella galleria video ospita, da oggi fino al 19 novembre, lo screening “Novantacinque percento paradiso, Cinque per cento inferno”.

Il titolo riprende i termini con cui molti degli abitanti dei kibbutz vicini a Gaza descrivevano la vita in prossimità del confine: una vita fatta di valutazioni quotidiane sulle opportunità di essere stabiliti in luoghi paradisiaci e sui rischi costanti. Una vita sulla linea di frontiera, dove nulla è automatico, ovviamente molto diversa da quella vissuta a Tel Aviv, a Gerusalemme o a Roma.

“Amenità fragile, assoluta bellezza in odor di orrore, luogo d’incontro tra rigoglio della vita e precarietà della stessa. Pace e guerra”, sottolineano gli organizzatori. L’installazione consente al pubblico di svolgere una visita virtuale nella Galleria Be’eri, nell’omonimo kibbutz, distrutta da Hamas lo scorso 7 ottobre, mentre proponeva un progetto a cura di Ziva Jelin e Sofie Berzon MacKie.

La lingua universale dei luoghi della cultura

“Ciò che conta oggi, nell’ospitare questa rassegna, è ricordare che l’arte sopravvive agli orrori, che i luoghi della cultura parlano una lingua universale di confronto, anche di conflitto e di denuncia, ma sempre di rispetto per la persona umana”, ha dichiarato Alessandro Giuli, presidente del MAXXI. “Per fortuna esistono antidoti alla guerra ed è un dovere per il MAXXI, che è un luogo di cultura, di arte, di dialogo e di pace, essere un porto sicuro nel dare senso e misura alla nostra società”, ha insistito Giuli. “Laddove è il pericolo cresce anche ciò che salva: l’arte e la cultura”, ha concluso il presidente del museo romano, citando Friedrich Holderlin.

“Il 7 ottobre ha rappresentato anche un colpo psicologico molto pesante per tutti gli israeliani, sia in patria che all’estero. In un contesto di morte e devastazione, all’inizio l’Arte ci sembrava superflua, un’offesa, ma poi abbiamo pensato che potesse essere un modo per comunicare cose che altri mezzi non dicono, un luogo di riflessione, di dialogo, di respiro e di speranza per tutti. L’Arte è un veicolo di pace”, ha spiegato Maya Katzir, curatrice dello screening.

In una programmazione molto fitta, la direzione del MAXXI non ha esitato ad accogliere le opere video tutte realizzate da artisti israeliani all’interno del kibbutz nel corso degli anni. “Con questo progetto vogliamo far vedere la molteplicità delle voci che esistono in Israele, la diversità: non è tutto bianco o nero. In questo momento doloroso, dopo il violento tentativo di far tacere quella pluralità di voci, qui abbiamo trovato uno spazio sicuro per consentire alla galleria bruciata di continuare a fare arte, in attesa di trovare un nuovo luogo in Israele”, ha sottolineato Katzir.

Lo screening ospitato nella videogallery del MAXXI è un filmato di 50 minuti, costituito da cinque video sottotitolati, realizzati da sei artisti israeliani e tutti girati nel kibbutz. I filmati sono opere scelte provenienti dall’installazione ospitata di recente nella Galleria Be’eri, andata completamente distrutta nel corso dell’attacco di inizio ottobre. In quel giorno del “cento per cento inferno”, i terroristi dell’organizzazione basata a Gaza hanno infatti dato alle fiamme la galleria e la mostra fotografica allora in corso, “Shadow of a Passing Bird” dell’artista Osnat Ben Dov, e oggi non ne restano che ceneri.

La Galleria Be’eri, per oltre 30 anni vivace centro culturale, è stata cancellata dalla mappa e le sue curatrici, Ziva Jelin e Sofie Berzon MacKie, sono rimaste per ore barricate nella ‘safe room’ invocando aiuto e documentando via social la catastrofe che si svolgeva fuori. Il kibbutz di Be’eri è stato uno dei luoghi maggiormente colpiti nell’attacco compiuto da Hamas, trasformando un sito paradisiaco in una distesa di cadaveri, case devastate e campi distrutti.

Oltre alla molteplicità di voci interiori, nelle opere selezionate, emergono gli sguardi che coesistono nell’animo di colui che vive nella consapevolezza di essere osservato dall’altra parte del confine e che, a sua volta, è costretto a guardare quello stesso confine con un misto di speranza e timore.

I filmati dell’installazione

Il primo filmato di Orit Ishay, “Fumo nel deserto” (2023), tratto da una storia vera e ambientato nel corso della guerra del Kippur, racconta della nascita di un’amicizia tra un soldato israeliano e un soldato egiziano prigioniero di guerra, che indurrà il primo a liberare il secondo. Ricorrendo all’inglese come lingua comune, nel corso dei loro scambi i due soldati prenderanno progressiva consapevolezza della comune umanità nella guerra.

Il secondo filmato, realizzato da Shimon Pinto, “Maktub” (Scritto/Predestinato, 2016), di impronta autobiografica, è un estratto di una più ampia installazione nel quale mani infantili scavano ossessivamente la terra brulla come per liberare qualcosa di sepolto si alternano all’immagine di uno scuro albero secco. La vicenda autobiografica a cui l’artista fa riferimento risale alla sua infanzia ed è la drammatica scoperta che lo zio del kibbutz a cui andare “a far visita” è in realtà un defunto interrato, caduto in guerra.

Tamar Nissim, con “Il posto migliore dove crescere i bambini” (2017), propone un montaggio di interviste a nove donne che abitano lungo il confine meridionale sul tema della difficoltà e delle sfide del vivere e del crescere un bambino in condizioni tanto complesse e spesso ostili, in cui la guerra è sempre alle porte.

Nella quarta opera, a firma di Nir Evron e Omer Krieger – intitolata “Nelle prove dello spettacolo delle visioni” (2014) – degli abitanti del kibbutz Be’eri recitano la poesia omonima del filmato, composta dal poeta 99enne Anadad Eldan del medesimo kibbutz, sopravvissuto all’assalto terroristico del 7 ottobre e zio del noto storico Yuval Harari. La musicalità dei versi, estremamente allitteranti, s’intreccia con le immagini di spazi interni ed esterni di Be’eri, in una fusione di volti in cui il singolo si mescola all’altro. Un filmato emblematico del collettivismo e della solidarietà del kibbutz, un’esperienza criticata anche in Israele.

Infine in “Saluki” (fiume libanese), realizzato nel 2019 da Tzion Abraham Hazan, quattro abitanti di Be’eri si ritrovano dopo cena a rievocare un tragico incidente di fuoco amico avvenuto nel corso della battaglia di Wadi Saluki, in Libano. Le loro mani ricostruiscono la vicenda ricorrendo a posate, utensili e avanzi di cibo, compresa una rapa che tutto macchia del suo rosso. 

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Al Moma di New York un omaggio a Ennio Morricone

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AGI – Cinecittà e un tempio dei musei mondiali come il MoMA celebrano Ennio Morricone (1928-2020), uno dei più grandi compositori cinematografici di tutti i tempi, con una retrospettiva di oltre 35 film che abbracciano i suoi quasi 60 anni di carriera.

Con più di 17 nuovi restauri digitali e stampe d’archivio in 35mm, la mostra presenta una ricca selezione di film con le colonne sonore più famose di Morricone (tra cui la ‘Trilogia dell’uomo senza nome’ di Sergio Leone e ‘C’era una volta il West’, ‘The Thing’ di John Carpenter, ‘The Mission’ di Roland Joffè, ‘1900’ di Bernardo Bertolucci e ‘Nuovo Cinema Paradiso’ di Giuseppe Tornatore) accanto a titoli meno conosciuti (come ‘Navajo Joè e ‘Il grande silenzio’ di Sergio Corbucci, ‘Il grande colpo’ di Sergio Sollima, ‘Danger: Diabolik’ di Mario Bava e ‘La tenda rossà di Mikhail Kalatozov).

Un raro programma televisivo tedesco del 1967 mostra Morricone stesso esibirsi come parte del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza (“Il Gruppo”), collettivo radicalmente sperimentale di compositori e musicisti che si unirono a Roma nel 1964 in uno spirito di improvvisazione non gerarchica. La geniale combinazione di strumentazione classica con nuove tecnologie elettroniche, musica concreta e jazz, serialità e rumore di Morricone si rifletteva anche nella sua composizione per il cinema. 

Il suo uso consapevole di armoniche a bocca, flauti di pan, campane, chitarre twang, tamburi e, soprattutto, la voce umana e il fischio, rivoluzionarono la musica del cinema di genere popolare, dai western all’horror, dalla commedia operistica al melodramma, e continua a influenzare compositori e musicisti contemporanei come Hans Zimmer, Angelo Badalamenti, Radiohead, John Zorn, Mica Levi, Jay-Z e Metallica.

Joshua Siegel, curatore del Dipartimento del cinema del MoMA, afferma: “Questa retrospettiva su Ennio Morricone è la più grande che il MoMA abbia mai dedicato a un compositore cinematografico. In sole cinque note – il fischio echeggiante de Il buono, il brutto e il cattivo – Morricone si è assicurato un posto accanto a Beethoven componendo uno dei più grandi temi di apertura della storia della musica Western. Ma, come questa retrospettiva di quasi 40 film illustra, Morricone era capace di molto di più e la sua versatilità è il risultato di un esordio di successo nella sperimentazione musicale d’avanguardia”.

Nicola Maccanico, amministratore delegato di Cinecittà, annuncia con orgoglio un importante tributo al Museum of Modern Art (MoMA) di New York, prestigioso partner da molti anni. “Questo omaggio è dedicato all’unicità di Ennio Morricone, Maestro iconico, le cui composizioni musicali sono state una fonte di ispirazione per innumerevoli generazioni. Come parte di questo omaggio, siamo entusiasti di presentare il restauro in 4K del capolavoro di Giuseppe Tornatore, ‘Nuovo Cinema Paradiso’, insieme al suo ultimo documentario, ‘Ennio’. Queste presentazioni sono in linea con la missione principale di Cinecittà: preservare i classici senza tempo e promuovere l’arte cinematografica contemporanea, offrendo al contempo un hub creativo dove artisti di talento possano realizzare i loro sogni e condividerli con il pubblico di tutto il mondo”. 

 

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Finché non saremo libere, artiste iraniane in mostra a Brescia

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AGI – “Finché non saremo libere” è il titolo di una mostra inaugurata al Museo di Santa Giulia a Brescia e dedicata al tema drammaticamente attuale della condizione femminile nel mondo, con un particolare focus sull’Iran.

Il titolo della mostra è una citazione declinata al femminile del titolo del libro di Shirin Ebadi, avvocatessa e pacifista iraniana esule dal 2009, prima donna musulmana a ricevere, nel 2003, il Premio Nobel per la pace per i suoi sforzi per la democrazia e i diritti umani, in particolare delle donne, dei bambini e dei rifugiati. Vent’anni dopo, un’altra attivista, Narges Mohammadi, è stata premiata dall’Accademia dei Nobel mentre si trova in carcere, proprio per la sua battaglia contro l’oppressione delle donne in Iran e per promuovere diritti umani e libertà per tutti”.

Finché non saremo libere, si legge in una nota degli organizzatori, prosegue ed espande un filone di ricerca e approfondimento promosso dal 2019 da Fondazione Brescia Musei, che ha scelto di indagare contesti geo-politici di stringente attualità attraverso la prospettiva e la produzione di artisti contemporanei. Gli spazi del Museo di Santa Giulia, da sempre ospitale nei confronti dei progetti scientifico culturali di rottura, sono ora occupati dalle opere di artiste provenienti da differenti luoghi del pianeta, ma in particolare dalle artiste iraniane Sonia Balassanian, Farideh Lashai, Shirin Neshat, Soudeh Davoud e Zoya Shokoohi.

La mostra offre l’occasione per riflettere sulla condizione femminile nel mondo, mostrando situazioni in cui i diritti umani vengono calpestati. Si tratta di “una collettiva inedita con portfolio originali per l’Italia, di altissimo spessore, di artiste mai esposte nel nostro paese”. Ad aprire il percorso espositivo di Finché non saremo libere sarà la video installazione Becoming (2015) dell’iraniano Morteza Ahmadvand, che con questa opera riflette sulla possibile convivenza tra culture e sulla necessita di abolire distinzioni e gerarchie tra popoli e individui.

Tre video proiettati su altrettanti schermi, a ciascuno dei quali corrisponde uno dei simboli delle tre principali religioni abramitiche: la croce cristiana, una stella di David e un cubo raffigurante la Kaaba islamica, qui idealmente uniti in una sfera che rimanda alla Terra. L’opera dell’unico artista uomo esposto in mostra cede immediatamente il passo a una esposizione interamente dedicata ad artiste donne, la franco-marocchina Leila Alaoui, morta per le gravi ferite riportate durante gli attacchi terroristici a Ouagadougou mentre lavorava per una commissione di Amnesty International, la pakistana Hangama Amiri, l’ucraina Zhanna Kadyrova, l’albanese Iva Lulashi, l’afroamericana Mequitta Ahuja, la brasiliana Sonia Gomes e la nigeriana Otobong Nkanga, la sino-americana Hung Liu, l’indiana Shilpa Gupta e l’americana di origini nigeriane Toyin Ojih Odutola, la franco-americana Anne de Carbuccia, la nigeriana Marcellina Akpojotor, la curda turca Zehra Doan, la sudafricana Zanele Muholi, l’artista del Malawi Billie Zangewa. Il percorso della mostra prosegue con le artiste iraniane, e si chiude con due opere “site specific” che la giovane Zoya Shokoohi ha realizzato nel corso di una residenza a Brescia. 

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Un weekend dolcissimo con il Dolce Roma Fest

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AGI – Cresce l’attesa per la prima edizione del Dolce Roma Fest – The World of Pastry, due giornate ricche di incontri che vedranno pastry chef di fama internazionale, professionisti del settore e produttori dolciari incontrare il pubblico di appassionati sul palcoscenico di Roma. Più di 100 appuntamenti animeranno i suggestivi spazi del Palazzo dei Congressi, uno dei luoghi più prestigiosi della Capitale, cornice perfetta per ospitare un programma ricco di incontri e di proposte.

Dalla cioccolateria al gelato, passando per la pasticceria secca, fino ai lievitati e al cake design, Roma Dolce Fest racchiude, in un weekend d’incontri tra aziende, addetti ai lavori e li pubblico capitolino, le migliori espressioni della pasticceria nazionale.

“Dolce Roma Fest è la naturale evoluzione del Festival della Pasticceria da noi organizzato precedentemente – commenta Giammarco Mineo, ideatore del format e con Elena Morabito e Giuseppe Cicconi nel board di Alcama, la società che cura l’organizzazione dell’evento – una crescita dettata dalla sempre maggiore attenzione che il mondo dei dolci riscuote presso il grande pubblico. Logica quindi la scelta del Palazzo dei Congressi come location, per un percorso ancora più immersivo e variegato nel magico universo della patisserie. Quella che andremo a proporre sarà un’esperienza unica nel suo genere, in grado di coniugare le produzioni dolciarie artigianali alla pasticceria d’autore, i gusti tradizionali alle tecniche più innovative, l’assaggio alla conoscenza. Una combinazione che contraddistingue il nostro formate offre una panoramica su molti talenti e sulle eccellenze dolciarie del nostro Paese”.

Dolce Roma Fest ha un programma denso di appuntamenti, che spazia dalla degustazione delle specialità di alcune tra le pasticcerie più note della scena romana e di tutta Italia, a momenti di dialogo e formazione. Oltre 35 corsi di pasticceria rivolti ad appassionati e pasticceri, per conoscere le ricette dei dolci della tradizione fino alle tecniche di cucina più moderne; tantissimi cooking show incentrati su alcuni dei dolci più iconici della Penisola, dal tiramisù al babà, fino al panettone e al maritozzo.

Non mancheranno le sfide con due contest, uno per pasticceri amatoriali e uno per professionisti; 15 le masterclass dedicate al cake design e una selezione di stand di produttori per far conoscere e assaggiare ai visitatori le proprie specialità. Sarà possibile acquistare gli stessi prodotti con i token, al moneta di acquisto Dolce Roma Fest da acquistare online o direttamente in sede d’evento.

Tanti i momenti di formazione, seminari, workshop che daranno la possibilità a professionisti e appassionati di conoscere i nuovi trend e tutte le tecniche del settore, con il talento e l’esperienza dei maestri pasticceri più talentuosi d’Italia. Allestito anche uno spazio su misura per i più piccoli con il Pasticcio MiniClub, l’area dedicata a bambini e bambine per impastare, sfornare e decorare le proprie creazioni e per imparare senza trascurare il divertimento.

Spazio anche al tema della salute e della sicurezza alimentare. Saranno molti gli incontri incentrati sulle intolleranze alimentari, sulla pasticceria vegana, gluten free e senza lattosio, per imparare a realizzare dolci per tutte le necessità senza trascurare il gusto. Grande attenzione al sostenibile con numerosi focus sulla pasticceria green, sulla ricerca e scelta degli ingredienti a km 0, con l’obiettivo dichiarato di sensibilizzare il pubblico sul tema della sostenibilità in pasticceria.

Dolce Roma Fest mette al centro del palcoscenico anche l’impegno etico e solidale: valori fondamentali che si concretizzano nella realizzazione di un villaggio di Babbo Natale in pasta di zucchero e in una raccolta fondi, entrambi destinati all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.

Non mancheranno, infine, gli incontri con le stelle del settore. Tra i tanti special guest dell’evento Damiano Carrara, uno tra i pasticceri più amati d’Italia e grande interprete della pasticceria gluten free, sarà protagonista di due imperdibili show cooking; Loretta Fanella, celebre volto della pasticceria d’avanguardia, conquisterà il palato dei visitatori con lo show cooking sweet carbonara; Giuseppe Amato, tra i migliori 10 Pastry Chef d’Italia ed insignito di molti altri premi a livello internazionale, sarà protagonista del seminario sulla sostenibilità in pasticceria; Dario Nuti, Executive Pastry Chef del Rome Cavalieri Warldorf Astoria Hotel 5 stelle L, presenterà la sua rivisitazione dei cantucci e vin santo. E ancora, in questa due giorni ad alto tasso di gusto, Sara Papa, uno dei volti più talentuosi dell’arte bianca; Irene Tolomei, pastry chef del ristorante stellato Aroma, e Salvo Leanza, gelatiere e maestro dei grandi lievitati.

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I Beatles tornano in cima alle classifiche con “Now and then”

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AGI – La discussa canzone “postuma” dei Beatles, realizzata grazie all’intelligenza artificiale, ha riportato il mitico gruppo musicale di Liverpool in testa alla classifica britannica cinquantaquattro anni dopo l’ultima volta.
Now and Then‘, pubblicata nella versione finale lo scorso 2 novembre, fu registrata da John Lennon nel 1978 e completata molti anni dopo la sua morte dagli altri membri del gruppo, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr.

L’ultima volta che un brano dei Beatles aveva raggiunto la vetta della classifica settimanale britannica fu nel 1969 con “The Ballad of John and Yoko”, come riferisce The Official Charts Company in una nota proclamando “il ritorno della Beatlemania”. Complessivamente la band, che si sciolse nell’aprile del 1970, ha scalato per diciotto volte la vetta delle hit, cominciando con “From me to You” nel 1963.

“È strabiliante. Sono sbalordito. È anche un momento molto emozionante per me”, ha commentato Paul McCartney, 81 anni. La prima traccia di “Now and Then” fu registrata da John Lennon nel suo appartamento newyorkese e dopo il suo omicidio nel 1980 la vedova Yoko Ono la consegnò in una cassetta agli ex membri del gruppo, ma questo brano cantato al pianoforte fu considerato troppo “sporco” perchè la voce di Lennon vi fosse recuperata. Soltanto le ultime tecnologie dell’intelligenza artificiale hanno permesso di isolarla e mixarla con le voci degli altri, compresa quella di George Harrison scomparso nel 2001. Il brano ha tuttavia ricevuto un’accoglienza tiepida da parte della critica: Washington Post ha giudicato il titolo “banale” e secondo il Times “è lungi da essere un capolavoro perduto”. 
 

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Cultura

La Sagrada Familia non sarà più un’opera infinita. Stop ai lavori fra 10 anni

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AGI – Ancora una decina d’anni e la ‘Sagrada Familia’ potrebbe non essere più sinonimo di eterna incompiuta. Il presidente delegato del Comitato per la costruzione, Esteve Camps, ha dichiarato che la struttura sarà ultimata entro al massimo 10 anni se non ci saranno battute d’arresto come la pandemia, che ha rallentato la costruzione della basilica di Barcellona.

In un’intervista pubblicata sul settimanale d’informazione religiosa Catalunya Cristiana, Camps ha affermato che, una volta terminate le torri degli Evangelisti, il prossimo passo sarà quello di terminare quella di Gesù Cristo – la più alta dell’intero complesso architettonico – e che è prevista per 2026.

Un altro degli elementi in attesa di completamento è la facciata della Gloria, per la quale si sono candidati “artisti internazionali”. La costruzione della facciata sarà supervisionata dall’architetto direttore, Jordi Fauli, che avrà il compito di seguire il lavoro degli scultori “con il consiglio dei teologi”.

“Ci saranno un minimo di tre artisti, ma deve esserci lo stesso filo conduttore”, ha affermato Camps che ha fatto riferimento anche alla scalinata della facciata della Gloria, sottolineando che non si rinuncia “al progetto che Antoni Gaudì presentò nel 1915 e che tutti possono vedere nell’Archivio Comunale di Barcellona”.

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