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Cultura

Processo di Verona, la vendetta di Hitler e le ambiguità di Mussolini

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AGI – Un ufficiale SS scrisse sprezzante nel rapporto ai suoi superiori che «gli uomini che non giacevano a terra erano stati colpiti così male che si contorcevano e gridavano» e si era reso necessario sparare i colpi di grazia da parte del comandante e di alcuni militi del plotone d’esecuzione.

Gennaio 1944, il processo di Verona ai gerarchi che il 25 luglio 1943 avevano votato l’Ordine del giorno Grandi provocando la caduta di Mussolini e il crollo  del regime fascista, si concludeva nel sangue suggellando una sentenza di morte già scritta. Per Adolf  Hitler quello era stato un tradimento che andava pagato con la vita, e lo stesso invocavano i repubblichini. La sala degli Amici della musica a Castelvecchio era stata adibita ad aula di tribunale, simbolicamente nello stesso luogo in cui nel novembre 1943 si era tenuto il primo (sarà anche l’ultimo) Congresso nazionale del Partito fascista repubblicano.

Dei 19 gerarchi che col voto del Gran Consiglio avevano creduto di salvare il salvabile sacrificando il Duce, solo sei erano però rimasti nelle mani dei tedeschi e dei fascisti, e tra di essi Galeazzo Ciano, ex ministro degli esteri e genero di Benito Mussolini, perché marito della figlia prediletta, Edda. Era in cima alla lista nera di Hitler il quale già il 15 settembre aveva preteso dal Duce la  testa di Ciano, senza dover tenere in  alcun conto i rapporti parentali di padre, suocero e nonno. Anche sua moglie Rachele era per la vendetta.

È dibattuto ancora oggi se in che modo, e soprattutto a quale prezzo politico il processo di Verona davanti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato della Rsi, istituito allo scopo il 14 novembre 1943 (e approvato dal consiglio dei ministri il 24) potesse saltare o avere un esito diverso: la corte era formata da nove magistrati di nomina politica e di sicura fede fascista, come preteso e orchestrato dal segretario Alessandro Pavolini. Il 17 ottobre Ciano era stato arrestato a Monaco di Baviera, dove si trovava dal 27 agosto e dove si era persino riconciliato con Mussolini, e imprigionato nel carcere degli Scalzi. Presto sarebbe stato raggiunto da Tullio Cianetti, Luciano Gottardi (che addirittura aveva chiesto l’iscrizione al PFR), Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi, reclusi prima a Roma dove risiedevano nelle proprie abitazioni e poi a Padova, quindi a Verona dal 4 novembre; solo Emilio De Bono, per riguardo all’età (era nato nel 1866) e perché quadrumviro della Marcia su Roma del 1922, fu lasciato nella sua casa di Cassano d’Adda e successivamente ospitato in una stanza d’ospedale.

L’istruttoria del giudice Vincenzo Cersosimo, con gli ostacoli frapposti dai tedeschi ai quali non interessavano certamente né procedure né garanzie giuridiche, si concluse il 29 dicembre. Per il processo non c’erano basi legali, come sostenne il neo ministro della giustizia Piero Pisenti, a partire dall’accusa di tradimento, poiché Mussolini era stato portato a conoscenza del contenuto dell’Ordine del giorno Grandi ed era stato lui a far convocare lo stesso il Gran Consiglio. La questione era squisitamente politica, e si intersecava con l’odio irriducibile di Adolf Hitler, Joseph Goebbels e Joachim Ribbentrop per Ciano, e l’interesse più razionale dei servizi segreti tedeschi per i suoi Diari, imbarazzanti e compromettenti a una rilettura storica.

Non a caso a stretto contatto con Ciano lo spionaggio nazista aveva posto l’agente Felizitas Beetz (alias di Hildegard Burkhardt), segretaria del capo del SD  in Italia, tenente colonnello SS Wilhelm Höttl in pieno accordo con Ernst Kaltenbrunner, comandante in capo del RSHA. Era stata lei, innamorata di Ciano, a tessere una tela con Edda per cercare di salvargli la vita, andando anche oltre l’incarico di impadronirsi dei preziosi documenti, e addirittura facendosi artefice di un’operazione delle SS per liberare il prigioniero, che aveva avuto il via libera da Heinrich Himmler ed Kaltenbrunner ed era programmata nella notte tra 7 e 8 gennaio, poche ore prima dell’apertura del processo di Verona prevista per le 9, la cui sentenza era già scritta: saranno infatti rifiutati tutti i testimoni citati dalla difesa e ammessi solo quelli dell’accusa.

Edda aveva recuperato a Roma i Diari con l’aiuto del conte Emilio Pucci, cucendoli all’interno della fodera di una pelliccia, e aveva consegnato due agende il 4 prendendo accordi per l’indomani, disattesi però dai tedeschi dopo una telefonata giunta da Berlino: Hitler era venuto a conoscenza del piano da Goebbels e Ribbentrop e aveva fatto saltare tutto. Dei sei gerarchi sotto processo a Verona, lunedì 10 gennaio cinque vennero condannati a morte e il solo Cianetti a 30 anni di reclusione (aveva ritrattato il voto del Gran Consiglio la notte stessa del 25 luglio, e per questo si salvò grazie a 5 voti contro 4); tutti gli altri, a partire da Dino Grandi, erano stati processati e condannati in contumacia alla pena capitale, e tutti sopravvivranno alla seconda guerra mondiale.

Le domande di grazia, dopo un assurdo e imbarazzato balletto di competenze di venti ore per non assumersi responsabilità e non caricarle sulle spalle di Mussolini già dilaniato dal suo ruolo politico e familiare (non gli vennero neppure recapitate), furono respinte dal console Italo Vianini: questi si era rifiutato per quattro ore di rigettarle ma poi era stato costretto a firmare da un ordine telefonico di Renato Ricci seguito da un altro ordine scritto, alle 8 del mattino di martedì 11 gennaio.

Nonostante fosse già tardi per procedere alla fucilazione, di prammatica all’alba (momento peraltro già fissato per quel giorno), alle 9 i condannati, come preventivamente comunicato ai tedeschi, furono condotti al poligono di tiro di forte San Procolo. Il plotone d’esecuzione, agli ordini di Nicola Furlotti, era composto da 30 militi disposti su due file. I tedeschi assistevano interessati e tutto venne filmato da un ufficiale della milizia. I condannati furono legati a una sedia disposti di spalle, secondo l’usanza italiana e si confessarono a don Giuseppe Chiot.

Alle 9.20, un momento prima della scarica, Ciano si voltò: nella notte aveva tentato di suicidarsi in cella ma la pillola che credeva di cianuro fornita da Felizitas Beetz era invece un banale sonnifero. I proiettili non l’uccisero, il corpo venne scosso da spasmi e furono necessari due colpi alla testa sparati da Furlotti.  A mezzogiorno, aprendo i lavori del consiglio dei ministri a Gargnano, Mussolini dirà: «Giustizia è fatta». Edda non gli rivolgerà mai più la parola e nel 1991 il figlio Fabrizio Ciano (1931-2008) intitolò un suo libro di memorie «Quando il nonno fece fucilare papà».

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Autore Redazione