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Pompei svela il suo panificio ‘industriale’

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AGI – Asini con gli occhi bendati, legati, e costretti a girare per ore seguendo solchi tracciati sul pavimento. Schiavi rinchiusi in un ambiente angusto senza affaccio esterno, con piccole finestre con grate di ferro per far passare un po’ di luce. Una condizione da prigionieri, per uomini e animali, costretti a macinare il grano necessario ogni giorno per produrre il pane.

Un panificio quasi prigione emerge a Pompei nella Regio IX, insula 10, dove sono in corso scavi nell’ambito di un più ampio progetto di messa in sicurezza e manutenzione dei fronti che perimetrano l’area ancora non indagata della città antica più nota al mondo.

Le indagini degli archeologi hanno restituito una casa in corso di ristrutturazione, divisa come è frequente nel mondo romano in un settore residenziale, decorato con raffinati affreschi di IV stile, e locali commerciali, in questo caso destinati alla panificazione.

In uno degli ambienti del panificio, erano già emerse nei mesi scorsi tre vittime, a conferma che nonostante la ristrutturazione in corso, la dimora era abitata. L’ennesima testimonianza del lavoro massacrante a cui erano sottoposti uomini, donne e animali negli antichi mulini-panifici, raccontato anche da una fonte d’eccezione, lo scrittore Apuleio, vissuto nel II secolo d.C., che nelle Metamorfosi IX 11-13, racconta come Lucio, protagonista di una delle sue storie, venga trasformato in asino e venduto a un mugnaio.

Le nuove scoperte rendono possibile descrivere meglio anche il funzionamento dell’impianto produttivo in disuso al momento dell’eruzione del 79 dopo Cristo. Il settore produttivo messo in luce è privo di porte e comunicazioni con l’esterno, l’unica uscita dà sull’atrio, e nemmeno la stalla possiede un accesso stradale come frequente in altri casi. “Si tratta, in altre parole, di uno spazio in cui dobbiamo immaginare la presenza di persone di status servile di cui il proprietario sentiva il bisogno di limitare la libertà di movimento – fa notare il direttore del Parco Archeologico di Pompei Gabriel Zuchtriegel, in un articolo scientifico a più mani pubblicato sull’E-Journal degli scavi di Pompei.

“È il lato più sconvolgente della schiavitù antica, quello privo di rapporti di fiducia e promesse di manomissione, dove ci si riduceva alla bruta violenza, impressione che è pienamente confermata dalla chiusura delle poche finestre con grate di ferro”, aggiunge. La zona delle macine, nella parte meridionale dell’ambiente centrale, è adiacente alla stalla, caratterizzata dalla presenza di una lunga mangiatoia.

Attorno alle macine si individua una serie di incavi semicircolari nelle lastre di basalto vulcanico. Data la forte resistenza del materiale, è verosimile che quelle che a prima vista potrebbero sembrare delle impronte siano in realtà intagli realizzati appositamente per evitare che gli animali da tiro scivolassero sulla pavimentazione e contemporaneamente tracciare un percorso, formando in tal modo la curva canalis descritta da Apuleio.

“Le fonti iconografiche e letterarie, in particolare i rilievi della tomba di Eurysaces a Roma, suggeriscono che di norma una macina fosse movimentata da una coppia composta da un asino e uno schiavo. Quest’ultimo, oltre a spingere la mola, aveva il compito di incitare l’animale e monitorare il processo di macinatura, aggiungere del grano e prelevare la farina”, spiega il direttore del Parco.

L’usura dei vari intagli può dipendere dagli infinti giri, sempre uguali, svolti secondo lo schema predisposto nella pavimentazione. L’ambiente riaffiorato, con la sua testimonianza di dura vita quotidiana, integra il quadro raccontato nella mostra “L’altra Pompei: vite comuni all’ombra del Vesuvio”, che inaugurerà il 15 dicembre alla Palestra grande degli scavi dedicata a quella miriade di individui spesso dimenticati dalle cronache storiche, come appunto gli schiavi, che costituivano la maggioranza della popolazione e il cui lavoro contribuiva in maniera importante all’economia, ma anche alla cultura e al tessuto sociale della civiltà romana. 

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Investigare 5.0, un manuale da perfetto Sherlock dei nostri tempi

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AGI  – “Investigare 5.0”, volume curato dal prefetto Vittorio Rizzi e dalla professoressa Anna Maria Giannini, è stato presentato a Bruxelles presso l’Istituto italiano di cultura dell’ambasciata italiana.

Il manuale vuole essere una sorta di giving back degli investigatori alle accademie e alle scienze criminologiche, con la restituzione del sapere scientifico arricchito dall’esperienza sul campo. Come un prisma di vetro che scompone un raggio di luce bianca in mille colori, così Investigare 5.0 affronta la complessità del mondo delle indagini offrendo le diverse prospettive che, oggi, sono richieste per garantire la sicurezza dei cittadini: alla preparazione professionale e all’intuito dell’investigatore si affianca il lavoro del biologo, del chimico, del fisico, dell’ingegnere, dello statistico, dello psicologo, del sociologo, dell’esperto in comunicazione.

Una pluralità di saperi e di esperienze collegati da due temi di fondo, solo apparentemente lontani: l’innovazione tecnologica e una diversa sensibilità culturale in tema di promozione e tutela dei diritti umani. L’innovazione tecnologica, negli anni che stiamo vivendo, a cavallo di due millenni, ha determinato un’accelerazione unica nella storia dell’umanità.

La rivoluzione digitale offre opportunità straordinarie tanto alle indagini che alle minacce criminali, che richiedono studio e un’attenzione costante per intercettare i nuovi pericoli e predisporre per tempo le contromisure. L’altro filo rosso che ispira questo manuale è l’attenzione alla vittima, una sensibilità contemporanea – oggi codificata anche nell’ordinamento giuridico – che ha introdotto nella criminologia una nuova prospettiva vittimologica. Quella che il codice di procedura penale definisce come la persona offesa dal reato non rappresenta più solo il titolare di un’istanza risarcitoria, ma diventa il protagonista della complessa macchina della sicurezza, che deve essere adeguata ad accogliere i bisogni di chi soffre per essere stato vittima di un crimine ed è titolare di un’istanza di giustizia. Tecnologia e vittimologia diventano così due facce della stessa medaglia, in cui la scienza è il fulcro di una nuova conoscenza che deve partire e tornare all’uomo, per regalare alla società livelli sempre più alti di civiltà e umanità.

L’ambasciatrice Federica Favi ha sottolineato il valore assunto dall’Italia nella cooperazione internazionale e l’importanza del modello italiano nelle strategie di prevenzione e contrasto al crimine organizzato. L’onorevole Sabina Pignedoli ha messo in evidenza quanto sia funzionale alle investigazioni, soprattutto in tema di crimine organizzato, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nell’analisi dei dati.

Il dottor Alfredo Nuzzi di Europol ha posto in luce l’esperienza positiva del modello investigativo italiano sia nelle capacità di prevenzione che in quelle operative in ambito multilaterale, con le esperienze maturate nei pool antimafia ed antiterrorismo.

Il prefetto Rizzi, vicecapo della Polizia, ha rimarcato la necessità di promuovere la cultura del contrasto alle mafie e, nel rispondere alle domande della giornalista Lucrezio in materia di violenza di genere, ha posto l’accento sulla necessità di lavorare culturalmente sul rapporto asimmetrico tra uomo e donna. L’intervista ha toccato diversi temi, quali la criminalità economica finanziaria. Rizzi ha spiegato che in un mondo globale e globalizzato la sfida al riciclaggio è altamente complessa, poiché dall’economia reale si è passati all’economia finanziaria ed oggi si è alla cosiddetta technofin con monete virtuali negoziate su piattaforme: nel centenario di Interpol, l’Italia ha promosso la risoluzione, adottata quasi all’unanimità, per l’istituzione di un nuovo alert, specificatamente la ‘Silver Noticè, sulla scia del principio ‘follow the money’ di Giovanni Falcone.

 

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La Prima alla Scala: 13 minuti di applausi per il Don Carlo di Verdi 

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AGI – Drammatico e romantico, una storia di potere e di amore, senza lieto fine. E’ il Don Carlo di Giuseppe Verdi, firmato da Lluís Pasqual, diretto dal maestro Riccardo Chailly, l’opera più complessa e tormentata del compositore, che stasera ha segnato l’avvio della stagione del Teatro alla Scala di Milano, salutata dal pubblico con 13 di applausi.

Soprattutto per le due cantanti: Anna Netrebko, nel ruolo di Elisabetta di Valois, ed  Elina Garanča, in quello della Principessa d’Eboli, che per il sovrintendente Dominique Meyer sono “la leonessa e la tigre”. Hanno brillato. Mentre qualche perplessità c’è stata sulla regia e, a sentire dal brusio, anche per la direzione di Chailly.

Da dire che l’opera è stata accompagnata da un velo di polemica ‘politica’: quella per i posti nel palco Reale. Ieri il sindaco aveva espresso la volontà di ‘scendere’ in platea per sedersi accanto alla senatrice a vita Liliana Segre. Cosa mai successa in passato. Una impasse superata con l’invito “da parte di Sala e di La Russa” a Segre a occupare un posto nel palco delle autorità.

E così è stato. “Non ho mai mosso un sopracciglio di polemica in questa vicenda – ha spiegato La Russa – perché capivo che era un problema logistico e non politico”.

Dunque, alla fine, a rendere omaggio agli artisti nel palco Centrale c’era la senatrice seduta tra il sindaco e il presidente del Senato Ignazio La Russa. Dietro di loro, il vicepremier Matteo Salvini, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, i ministri Sangiuliano e Casellati. In teatro si è sentita la mancanza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, qui sempre molto amato.

Anche Segre ha ammesso di sentirne la mancanza spiegando di considerarlo “come un fratello”. Stavolta gli applausi – sempre tributati al Capo dello Stato – sono stati per lei, salutata dal pubblico in piedi. Dopo l’Inno di Mameli la polemica però ha fatto nuovamente capolino in sala.

Una voce si è levata forte dal loggione, “Viva l’Italia anti fascista” e “no al fascismo”. Un episodio ridimensionato dal presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana secondo il quale “la musica e la Scala vincono su tutto”.

Il presidente la Russa assicura di non aver “sentito nulla”. E per Salvini “se uno viene a sbraitare alla Scala o a fischiare agli Ambrosini ha un problema. E’ nel posto sbagliato. Qui si ascolta e non si urla”.

Altra ‘ombra’: stasera non c’è stato il saluto da parte del presidente del Senato al maestro Chailly e agli artisti e maestranze, che di consuetudine viene fatto dalle autorità durante il primo intervallo.

Pochi giorni fa, le rsa e rls Slc-Cgil e Anpi Scala avevano detto che non avrebbero partecipato “ad alcun cerimoniale di saluto istituzionale rivolto a chi non ha mai condannato il fascismo”.

A salutare il direttore d’orchestra sono andati Sangiuliano, Sala e Meyer. Non La Russa, che però al termine della serata ha spiegato: “Non l’ho voluto dire prima per non fare polemica, ma c’è proprio ignoranza dei ruoli istituzionali. Quando non c’è il presidente della Repubblica, non è che il presidente del Senato è il suo supplente”. Spazio alla musica dunque, e fine delle questioni.

Il cast “glorioso”, forte di grandi voci e ben affiatato era già una garanzia. In scena la super star amatissima da pubblico e critica, Anna Netrebko, e Francesco Meli, che hanno raggiunto le sei inaugurazioni ciascuno. Luca Salsi, era alla quarta.

Con loro Michele Pertusi e la straordinaria Elina Garanča. Lo spettacolo firmato da Lluís Pasqual ha portato in scena un’opera concepita “come tragedia Shakespeariana che ci svela il dietro le quinte del potere. Con il back stage dove i personaggi sono di una solitudine enorme “.

Sul palco pochi colori, oro, alabastro e tanta ‘cupezza’ trasmessa da abiti e mantelli neri. Ma come aveva spiegato il premio Oscar Franca Squarciapino a quel tempo il nero era segno di grande agio e “non di tristezza”.

Nel Don Carlo la trama è complessa, i temi cari al compositore ci sono tutti, l’amicizia, il popolo sottomesso, i problemi tra padre e figlio, il potere, la religione, l’amore tormentato. E ci sono personaggi con diverse sfaccettature. Mettere tutto in scena non è stato facile.

A far sentire “il respiro del compositore” ci ha pensato il direttore d’orchestra Riccardo Chailly che con il Don Carlo chiude la ‘Trilogia del Potere’, iniziata con Macbeth nel 2021 e Boris Godunov nel 2022.

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Prima alla Scala, su il sipario. Applausi per Liliana Segre

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AGI – L’orchestra del Teatro alla Scala di Milano, diretta dal maestro Riccardo Chailly ha eseguito l’inno di Mameli prima dell’inizio dell’opera, il don Carlo di Verdi, che questa sera, inaugura la stagione. Tutti in piedi nel palco reale, dove in prima fila siede anche la senatrice a vita Liliana Segre, tra il sindaco di Milano Beppe Sala e il presidente del Senato Ignazio La Russa. Al termine dell’inno si sono sentite chiaramente un paio di voci che gridavano “viva l’Italia anti fascista”.

Meyer: “Le polemiche? noi ci concentriamo sullo spettacolo”

“Sulla polemica tra il sindaco Sala e il presidente La Russa “la prima della Scala è sempre un momento in cui escono tante cose vere e false. Io ho chiesto a tutti quelli del teatro di concentrarsi sul nostro lavoro che è quello di produrre uno spettacolo bello e importante. Noi facciamo questo”. Lo ha detto il soprintendente della Scala Dominique Meyer a margine della Prima. A chi gli ha chiesto dell’assenza del presidente Mattarella ha risposto: “Io apprezzo molto il presidente Mattarella, sarei stato felicissimo se fosse potuto venire, ha dimostrato in tutti questi anni un affetto grande nei confronti della Scala, non dimenticherò mai quando al Duomo abbiamo presentato il requiem di Verdi alla memoria delle vittime del covid. Poi era tornato quando abbiamo aperto il teatro dopo la pandemia. Sento la sua mancanza ma è più personale che di altra natura”.

Liliana Segre accolta dal sindaco e prefetto

Il Prefetto di Milano Claudio Sgaraglia e il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala, hanno accolto la senatrice a vita Liliana Segre all’ingresso del teatro. “Sono un’abbonata. Ho iniziato dal loggione. E questo è un bel momento da ricordare”. Ha detto Segre all’arrivo. La senatrice, che di solito prende posto in platea, stavolta sarà in prima fila nel palco Reale accanto al sindaco e al presidente del Senato Ignazio la Russa. E proprio all’arrivo nel palco reale è stata subito applaudita dal pubblico in sala. Tutti in piedi in platea e nei palchi hanno salutato la senatrice con un caloroso applauso, prima dell’inizio dell’opera verdiana.

Arrivato vicepremier Salvini

Il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini è arrivato al Teatro alla Scala per la Prima del “Don Carlo”. Il leader della Lega è con la compagna Francesca Verdini. “Sono orgoglioso” che Milano oggi sia al centro del mondo “infatti ho scelto Milano per il G7 trasporti ad aprile. Sono ministro di tutta Italia ma sono nato qui e per me Milano è Milano”. Ha detto il ministro e vicepremier arrivando al Piermarini per la prima della Scala.

 Almodovar e Garrel alla prima

Ci sono anche il regista spagnolo Pedro Almodòvar e l’attore francese Louis Garrel alla Prima della Scala. “È una serata molto bella. Questa è la mia cultura, perché parla della storia di noi spagnoli. Sono molto felice, questa è la mia prima volta qui, sono davvero molto eccitato”. Così il regista, a margine della prima del Don Carlo, al teatro alla Scala. 

Casellati: “La prima è una vetrina sul mondo”

“Diciamo che la Prima della Scala è una vetrina sul mondo. La lirica ormai è patrimonio dell’UNESCO e oggi assistere a questa prima di un’opera della maturità di Verdi che un po’ si allontana dalla linea drammaturgica è davvero un grande piacere, con cantanti straordinari, quindi, è una gioia per il cuore”. A dirlo è Maria Elisabetta Alberti Casellati, Ministro per le riforme istituzionali, a margine della Prima del Don Carlo al Teatro alla Scala. 

Nordio: “La ‘prima’ in carcere è il volto migliore della detenzione”

La Scala in carcere “rappresenta il volto migliore della detenzione”. Lo dice il ministro della Giustizia Carlo Nordio rammaricandosi per non poter essere presente alla visione del ‘Don Carlo’ a San Vittore. “So che, come vuole tradizione, a conclusione dell’opera verrà offerto risotto e panettone, frutto del lavoro di persone private della libertà che hanno avuto la possibilità di imparare un mestiere – prosegue Nordio -. Ci stiamo adoperando per cercare di far aumentare il numero delle imprese che investono nel carcere e delle persone che sono impiegate e so di trovare a Milano una società e un’imprenditoria sensibile.

La Russa: “Milano al centro del mondo”

“Milano è al centro del mondo, spero sarà una grande serata di musica come sempre avviene alla Scala. Poi il Don Carlo non è qualcosa che si può ammirare tutti i giorni, è un grande evento”. Lo ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa arrivando al Teatro alla Scala di Milano per la Prima del Don Carlo. “Sono stati solo temi logistici, niente che mi abbia impressionato”, ha detto poi rispondendo a una domanda sulla polemica che si è scatenata sui posti a sedere.

Patti Smith: “Mi aspetto bellezza”

“Stasera mi aspetto bellezza”. Lo ha detto Patti Smith arrivando al Piermarini per la Prima della Scala. A chi le ha chiesto un commento sulla situazione politica la cantautrice ha risposto: “Sono qui per i bambini, non per la politica”.

Un tenore iraniano con la maglietta a sostegno della protesta delle donne

Ramtin Ghazavi il tenore iraniano che questa sera prenderà parte alla prima del Don Carlo cantando nel coro, è arrivato mostrando una maglietta “Donna, vita, libertà” in segno di solidarietà alla rivoluzione delle donne iraniane.

 

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Fedez sbotta contro gli haters e li chiama ‘conigli infami’

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AGI –  “Troppo facile da dietro uno schermo senza assumersi le responsabilità di ciò che si scrive. Vi giuro su quello che ho di più caro che scoprirò chi siete, conigli infami”. Così Fedez su X sbotta contro gli haters che hanno rivolto minacce e malauguri ai due figli, Il rapper nei giorni scorsi aveva annunciato di aver già sporto denuncia alla polizia postale contro gli odiatori seriali che affollano i suoi profili. 

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È battaglia sulla copertina originale di ‘Asterix e Cleopatra’

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AGI – È battaglia legale intorno alla messa all’asta a Bruxelles di un disegno originale di Albert Uderzo del 1963, la copertina di “Asterix e Cleopatra”, una tempera di 32×17 cm, il cui valore è stimato tra i 400.000 e i 500.000 euro. A metterla in vendita è il figlio di un uomo che ne divenne proprietario più di 50 anni fa “a seguito di una donazione fatta da Albert Uderzo”, assicura la casa d’aste.

Ma Sylvie Uderzo, figlia del disegnatore, contesta la proprietà dell’opera e alla fine di novembre ha incaricato un avvocato francese di sporgere denuncia alla Procura di Bruxelles per “abuso di fiducia o furto”.
Nel disegno Uderzo fa una parodia del manifesto della produzione hollywoodiana del 1963 “Cleopatra”, all’epoca il film più costoso della storia. La Cleopatra di Uderzo ha la stessa posa di Elizabeth Taylor, Asterix sostituisce Giulio Cesare interpretato da Rex Harrison e Obelix Marco Antonio, interpretato da Richard Burton.

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Intervista ad Anna Voltaggio, in libreria con ‘La nostalgia che avremo di noi’

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AGI – Un romanzo breve destrutturato in tredici storie che hanno per secco titolo dei nomi. Personaggi che mutano ruolo da una all’altra trascolorando da protagonisti in comparse. Un puzzle di punti di vista emozionali che sottotraccia prende la forma del monologo interiore collettivo. Con La nostalgia che avremo di noi (Neri Pozza) una voce nuova bussa agli ingressi del  palazzo buono della letteratura italiana optando per la porta dell’originalità.

E rifiutando di classificarsi come “femminile” con la scelta di interpretare anche il sentire degli uomini. Sta suscitando interesse l’esordio in libreria di Anna Voltaggio, anche perché non è affatto un nome sconosciuto nell’ambiente.

Una  professionista della comunicazione editoriale che passa dall’altra parte della barricata: come ci si sente?

Leggermente a disagio, grazie. Entro incerta, in punta di piedi, in un mondo che per altri versi pratico da molti anni. L’approccio è  agli antipodi, come il livello di esposizione. So che sarò e guardata e giudicata, ma da esordiente accetto di provare insicurezza nella mia zona di confort.

Il suo libro racconta la generazione dei quaranta/cinquantenni di oggi puntando a una cifra minimale in termini di riferimenti spazio temporali: perché ha scelto di descrivere più il dentro che il fuori?

Dando parola alla sfera interiore più segreta vorrei far venire a galla un’età vissuta con smarrimento. Senza generalizzare, tratteggio un gruppo di adulti che rispetto ai loro omologhi del passato non hanno riferimenti. Perché la mia generazione è andata nel futuro a mani nude. Non alludo solo alla tecnologia: non abbiamo più trovato sentieri tracciati, tappe esistenziali definite nel privato e nel lavoro, e quasi sempre ripiegato sul piano B perché quello A non era praticabile.

Introduzione dell’euro, crisi economica: tutte le certezze smottate. A chi ci ha preceduto va detto grazie per tante cose, ma non hanno costruito. Noi a 30 anni non potevamo permetterci un appartamento, anche chi veniva dalla borghesia: il precariato era esistenziale e ha inciso nella costruzione dei nostri legami.

Coordinate emozionali: sono quelle che contano di più in letteratura?

Ne offro meno di altro tipo perché mi concentro più su sentimenti ambigui come desiderio e nostalgia. L’esterno è in parte omesso, ma le emozioni non prescindono dalla società. Inoltre la forma breve del racconto limita lo spazio e spinge a utilizzare simboli che rimandino a concetti. Una città fragile come Venezia specchia le fragilità di un  personaggio, una di frontiera come Trieste rappresenta un confine da raggiungere andando incontro al dolore.

Una periferia persa nel nulla era la quinta giusta per un racconto più onirico. Ho cercato di essere precisa soprattutto nel ritmo e nel posizionare le parole dove volevo che fossero, inserendole nel tempo dell’oggi.

I suoi personaggi oscillano tra scelte dettate dalla casualità, se non dal disturbo psichico, e una facciata di normalità: sono così le persone che per ragioni di età stanno prendendo le redini del mondo?

Nessuno dei miei personaggi sarà parte della classe dirigente. Mi incuriosisce l’umanità che sbaglia, la solitudine affamata di vita, la ricerca di qualcosa perche si sente una mancanza. C’è compassione. Ho scritto delle incrinature di persone che tengono in piedi una vita esatta, ma sanno bene di non essere perfette e allineate e che quando deraglieranno finiranno in vicoli ciechi.

Eppure non cambiano le loro decisioni perché è come si sentissero intere nell’errore, si riconoscessero scegliendo uno spazio libero e non conformato a ciò che secondo logica dovrebbe essere. Qualcuno mi ha detto che ho dato ai personaggi maschili tocchi più romantici: non è stato voluto, ma ci tenevo ad essere empatica con entrambi i sessi. Spesso autori uomini hanno fatto parlare le donne, meno il contrario. A me è piaciuto.

Da addetta ai lavori: è vero,  come sostengono le case editrici, che i lettori non amano la brevità dei racconti? Suona strano, in un tempo in cui la comunicazione si è fatta acronimo fino a trasformare ti voglio bene in tvb.

In effetti è raro esordire con dei racconti. Avuto il mio testo in valutazione, alcuni editori hanno mi chiesto di trasformarlo in romanzo infatti, ma non mi sono arresa. Resto innanzitutto una lettrice e la forma breve mi arriva dritta, ferocissima e commovente. Secondo me le storie frammentate spiegano il contemporaneo e se si ricominciasse a proporle dalle librerie arriverebbero ottime risposte.  Non a caso Veronica Raimo e Marco Balzano sono da poco usciti con delle raccolte.

Consigli per aspiranti autori: posto che un libro è per tutti, a chi deve rivolgersi un’esordiente?

Io ho pensato alle mie autrici e ai miei autori preferiti come lettori ideali, ma molti sono morti. A parte gli scherzi, parafrasando Rodari credo che un giovane debba scrivere quello che se non lo scrive gli fa male il braccio.

Due autrici o autori che ama.  E due che l’hanno ispirata.

Amo Clarice Lispector, perché, appunto, tratta di sentimenti ambigui, desiderio, nostalgia, gioco e ricerca dell’amore. E ovviamente mi ispira perché i suoi temi familiari e di amicizia sono anche miei.  Lo stesso vale per Yasmina Reza. Poi amo Daniele del Giudice per la scrittura  suggestiva, profonda e lucida. Ed amo Roberto Bolaño per l’immaginazione.

Un suo personaggio è chiamato Cartesio, ma poi si ritrova a giocare a dadi la sua vita: così vanno le cose?

Cartesio chiude il libro discostandosi da tutti gli altri caratteri,  incerti e in cerca  di qualcosa lasciato in sospeso in un passato che  li condiziona ancora. Lui invece ha un vita serena che non mette in discussione, ma il destino lo sgambetta costringendolo a prendere coscienza che il coraggio di un istante determina il risultato dell’esistenza di tutti noi, in termini di  pace interiore e  mancanza di rimpianti.  Perché ci vuole una dose di audacia per guardarsi in faccia.

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Cultura

Menù verdiano per la cena di gala della Prima alla Scala

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AGI – La Prima del Don Carlo di Verdi, che inaugura la stagione del teatro alla Scala di Milano, sarà seguita come ogni anno da una cena di gala alla Società del giardino. Organizzata per il dodicesimo anno da Caffè Scala, marchio del gruppo Fincav, di Milano, si avvale per la seconda volta dello Chef Enrico Bartolini affiancato da Davide Boglioli, Executive Chef del Ristorante tristellato Enrico Bartolini al Mudec.

“Per il menu di questa prestigiosa cena – spiega Bartolini – ho pensato a dei piatti che celebrassero il ricco territorio che ha dato i natali Giuseppe Verdi, utilizzando ingredienti tipici per rendere omaggio alla cucina tradizionale. Il dessert sarà invece un omaggio al Principe protagonista dell’opera verdiana”. In evidenza i partner della cena: saranno serviti il Bellavista Teatro alla Scala annata 2019, i panettoni di Elisenda Classico Edizione 2023 e Caffè Borbone.

Intento rinnovato anche questo anno di Caffè Scala è di promuovere l’inclusione dei giovani, dando loro la possibilità di contribuire al successo dell’evento. Dopo aver coinvolto la scuola Capac in cucina e in sala nell’edizione 2022, questo anno il progetto di allestimento dei tavoli è affidato agli studenti del Triennio di Scenografia NABA, Nuova Accademia di Belle Arti coordinata da Margherita Palli e Francesca Guarnone.

“Incentrandoci sul personaggio, vediamo prevalere nell’allestimento i colori bordeaux, oro e antracite, ritrovati anche nei dipinti “Ritratto dell’infante di Don Carlos” di Diego Velàzques e “Ritratto dell’infante di Don Carlos di Spagna” di Alonso Sànchez Coello”. In parallelo alla cena alla Società del Giardino, verrà servita la cena per la festa di tutte le maestranze del Teatro nel retro-palcoscenico, un gran buffet per 500 persone. 

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Il libro piace ancora, soprattutto se parla

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AGI – L’audio entertainment piace agli italiani che dedicano ad audiolibri e podcast sempre più tempo, specie quando guidano, fanno ginnastica, cucinano o mettono in ordine. Una montagna di ore e un business in crescita, se è vero che quasi metà degli italiani che ascolta audiolibri ne ascolta più di uno al mese (non poco visto che la durata media di un titolo è una decina di ore) e soprattutto un volano culturale, dato che l’87% afferma di conoscere nuovi autori proprio grazie all’ascolto. 

I numeri diffusi da Audible Compass 2023, un’indagine internazionale realizzata da Kantar per conto della società Amazon che produce e distribuisce audiolibri, podcast e serie audio saranno presentati a Roma in occasione di “Più Libri Più Liberi” e mostrano un aumento del 5% di quanti nel 2023 hanno consumato audio entertainment. 

Le cifre sembrano smentire le cassandre che vedevano nell’ascolto un nemico giurato della lettura: le due fruizioni, dice la ricerca, sono complementari: l’84% degli ascoltatori di audiolibri è anche lettore di libri, in formato cartaceo ed ebook.

Certo, l’Italia resta un mercato marginale rispetto a quello tedesco, ma mentre in Germania Audible – di fatto una sorta di monopolista del mercato dell’audiolibro – è arrivato nel 2005, nel nostro Paese è sbarcato solo nel 2016, In sette anni e mezzo, però, ha messo insieme numeri importanti: sedicimila titoli, più di tremila dei quali originali (prodotti cioè dall’azienda e disponibili solo sul servizio). Numeri e investimenti importanti, se si considera che solo nel 2023 sono stati spesi in creazione di contenuti circa 4 milioni di euro. 

La voce è uno dei fattori guida nella scelta all’ascolto: il 77% degli intervistati preme play se ritiene il narratore accattivante e coinvolgente. La saga completa di “Harry Potter” di JK Rowling, letta da Francesco Pannofino, continua a essere l’audiolibro più amato anche nel 2023 insieme a “La portalettere” di Francesca Giannone e a “Il Conte di Montecristo”, narrati da Sonia Barbadoro e Moro Silo; “Maxi” di Roberto Saviano è al primo posto nella classifica dei podcast  seguito da “Nero come il sangue” di Carlo Lucarelli e Massimo Picozzi e da “Le grandi battaglie della storia” di Alessandro Barbero.

In sette anni l’audiolibro non ha sottratto mercato a nessuno, ma è andato a occupare uno spazio che prima era vuoto” dice all’Agi Juan Baixeras, Country Manager Spagna e Italia di Audible, “È stato possibile grazie alla tecnologia – la diffusione di cuffie auricolari e l’evoluzione degli smartphone e del traffico dati – e il percorso che abbiamo intrapreso ci ha consentito di incrementare in modo considerevole il catalogo locale, passando dai 2.000 contenuti iniziali agli oltre 16.000 in italiano di oggi con 6.900 ore di contenuti prodotte solo quest’anno”. 

Ma quali sono i gusti degli italiani in fatto di audiolibri e podcast? Il primo fattore a determinare se un contenuto valga la pena di essere ascoltato o no, per l’84% degli italiani è il genere. Per quanto riguarda gli audiolibri, il primo tra tutti è letteratura e narrativa (51%), seguito da gialli e thriller (49%) e dalla storia (43%)

Parlando invece di podcast, in cima alle preferenze degli italiani ci sono i contenuti dedicati agli approfondimenti (40%), seguiti da Storia e Scienza (a parimerito al 38%) e dal True Crime (30%). La casa si conferma il luogo preferito per ascoltare audiolibri e podcast (69%), che vengono scelti per rilassarsi (45%), come compagni durante le faccende domestiche (21%), o come forma di intrattenimento “alla larga” dagli schermi (19%). Le storie in cuffia si confermano anche tra i migliori compagni di viaggio degli italiani intervistati (45%): si ascolta sia in auto (25%) che sui mezzi pubblici (20%) per raggiungere luoghi di lavoro, di studio o di svago. 

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Cultura

Bari 1943, il colpo di coda di Hitler e il segreto di Churchill

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AGI – La sorpresa totale dell’eclatante raid tedesco sul porto di Bari il 2 dicembre 1943 era niente rispetto alla scoperta che gli Alleati stavano stoccando migliaia di bombe all’iprite da utilizzare probabilmente sulla Linea Gustav.

La sanguinosa battaglia sul fiume Sangro si era appena conclusa con la vittoria dell’8ª Armata di Bernard Law Montgomery, ma senza lo sfondamento strategico che doveva dare una svolta alla guerra in Italia, quando sul cielo di Bari illuminato dalle tinte del tramonto si erano materializzare all’improvviso le sagome di 88 bombardieri Junkers Ju-88 della Luftwaffe.

La tempistica era stata perfetta, i caccia alleati erano rientrati alle basi, il diversivo per l’accecamento dei radar con migliaia di striscioline di stagnola aveva funzionato e il porto era ingolfato da una quarantina di navi da carico e da guerra. Gli esperti piloti tedeschi, decollati dagli aeroporti del nord Italia e da Atene, avevano solo l’imbarazzo della scelta sui bersagli a distanza ravvicinata e raggruppati.

Gli sganci erano iniziati poco dopo le 19.30 da bassissima quota e il risultato era stato devastante. La Luftwaffe non compiva da tempo un bombardamento su vasta scala e gli Alleati da Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, non erano mai stati colti così di sorpresa. Esplosioni e fiamme dappertutto. Pure l’acqua del porto bruciava. Antonio Virno era un giovane che lavorava per gli inglesi alla mensa militare. Aveva appena fatto in tempo a tuffarsi in mare e a mettersi al riparo degli scogli, assieme al suo ufficiale.

«Era un inferno. Ho visto l’inferno a 17 anni. Indescrivibile quello che accadeva sull’acqua e sulla terra. Morti dappertutto, esplosioni senza tregua». All’àncora c’era anche una nave americana di classe Liberty, la SS John Harvey. Era salpata il 18 novembre da Orano, in Algeria, ai comandi del capitano Edwin F. Knowles, e nelle stive portava duemila bombe M47A1, ognuna delle quali con 60-70 libbre di gas mostarda: la terribile e temutissima iprite della prima guerra mondiale, vietata per l’utilizzo dalle convezioni internazionali che però non ne proibivano la produzione, e sulla cui distribuzione il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva segretamente tolto il veto ad agosto.

Lo scafo aveva fatto tappa ad Augusta, in Sicilia, per un’ispezione del 7th Chemical Ordnance Company, e il 26 novembre aveva fatto rotta verso Bari, dov’era stata centrata la sera del 2 dicembre dai bombardieri tedeschi ed era esplosa uccidendo il comandante e 77 uomini di equipaggio. Parte del carico era fuoriuscito disperdendosi nell’aria in alte concentrazioni e parte ancora era colato a picco nelle acque portuali.

Il raid della Luftwaffe aveva provocato l’affondamento di 18 navi e il danneggiamento di altre 15, otto delle quali gravemente, al prezzo di appena due apparecchi. Perdite pesanti, pesantissime, nonché la messa fuori uso del porto fino a febbraio. Quasi duemila le vittime tra militari e civili, a terra e in mare, nelle case e nelle imbarcazioni. Il cielo di Bari era illuminato a giorno dagli incendi e dalle continue esplosioni che non risparmiavano neppure la città. Il comando del generale Harold Alexander, a una dozzina di chilometri di distanza in linea d’aria, riportò la rottura di tutti i vetri.

I rifornimenti per l’esercito di Montgomery erano perduti, ma la vera portata del bombardamento emerse subito dopo, quando marinai, soldati, personale ausiliario italiano e cittadini baresi cominciarono a manifestare problemi respiratori e strane vescicole sulla pelle. Qualcuno capì subito di cosa si trattava, strinse le maglie della sicurezza e l’8 dicembre il Quartier generale alleato diffuse un memorandum nel quale si raccomandò di diagnosticare una generica “dermatite non identificata”.

Ai corrispondenti di guerra non venne fatta parola di quel problema collaterale, perché era estremamente imbarazzante dover ammettere che gli angloamericani si preparavano alla guerra chimica sul fronte italiano. Il comandante supremo Dwight Eisenhower istituì una segretissima commissione d’inchiesta che a marzo 1944 sancì che le “dermatiti” erano dovute alla contaminazione da gas mostarda fuoruscito dalla John Harvey, con la sottolineatura che gli Alleati non l’avrebbero mai usato se non per reazione al loro impiego da parte di Hitler.

Winston Churchill, da parte britannica, aveva fatto immediatamente classificare Top Secret la documentazione medica limitandosi a far apporre la formula ambigua sulle morti per iprite dovute a «ustioni a causa di un’azione nemica». Dopo sedici anni la documentazione americana venne declassificata ma solo nel 1967 l’Istituto navale pubblicò un saggio in argomento che sarà seguito dal volume di Glenn B. Infield “Disaster at Bari”.

Il riconoscimento dell’esposizione ai gas tossici da parte dei sopravvissuti avverrà solo nel 1986 e limitatamente ai fini pensionistici. Ancora a fine millennio, come riporta uno studio dell’Istituto di medicina del lavoro dell’Università di Bari datato 2001, si verificavano contaminazioni tra i pescatori che incappavano con le loro reti nelle bombe corrose dal tempo sui fondali.

C’erano stati centinaia di casi e almeno cinque decessi potevano essere imputati all’iprite dispersa nel 1943 durante un’azione di guerra avvolta dal mistero. Uno dei segreti meglio conservati della seconda guerra mondiale ha avuto comunque anche un risvolto positivo, grazie agli esperimenti del chimico Stewart Francis Alexander sui tessuti prelevati durante le autopsie delle vittime dell’iprite. Le sue scoperte, ampliate farmacologicamente da Louis S. Goodman e Alfred Gilman, sono state alla base  della moderna chemioterapia per la cura dei tumori.

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